Hikikomori: più un fenomeno sociale che un “fatto digitale”

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Introduzione

In questo articolo, cercherò in parte, di scagionare dall’accusa di essere la causa prima del fenomeno degli Hikikomori, le tecnologie digitali.

Non assumerò tale atteggiamento per rivendicare riconoscimenti alle tecnologie digitali, bensì per il solo fine di informare autenticamente sul fenomeno e scoraggiare l’assimilazione del fenomeno degli Hikikomori e quello della dipendenza da internet, rendendoli così equivocamente interscambiabili.

 

1 Il fenomeno degli Hikikomori

1.1  Nascita e conseguenti sviluppi

Molti studi approfonditi sul fenomeno, lo fanno risalire agli anni ’80 e alcuni addirittura agli anni ’60 in Giappone; questo dato di partenza ci mette di fronte ad un’ evidenza, vale a dire quella che nel periodo storico considerato, le tecnologie digitali, internet e tutto ciò che ne ha seguito e conseguito, non erano ancora parte integrante della nostra vita, o quanto meno, non avevano ancora avuto il loro “esordio” come invece è avvenuto negli ultimi decenni; nonostante ciò era già alto il numero degli isolati sociali in questo periodo.

Questo ci fa intuire che le radici del fenomeno vanno ricercate in fattori più remoti e soprattutto di matrice psico-sociale.

Prima di addentrarci nei meandri del fenomeno, è necessario infatti informare sul significato letterale della parola Giapponese Hikikomori, che in italiano si traduce letteralmente “stare in disparte”.

Ora a partire da questa traduzione letterale, senza perderci troppo in interpretazione divaganti, possiamo chiaramente identificare questo fenomeno come un fenomeno di matrice sociale.

Infatti se prendessimo in esame un Hikikomori e lo osservassimo attentamente, potremmo facilmente constatare che l’origine dei suoi disturbi è da ricercare in problemi di matrice relazionale, esistenziale e adattiva, i quali gli fanno assumere certe tendenze ad isolarsi e ad autorecludersi.

In questo sfondo che inquadra l’Hikikomori come un soggetto fragile dal punto di vista psico-sociale, è facile immaginare che ruolo possano aver avuto in tutto questo le tecnologie digitali. Le tecnologie digitali, in tutto questo, rappresenterebbero solo una logica conseguenza dell’isolamento sociale piuttosto che la causa diretta del fenomeno. Questo però non significa sollevare da ogni responsabilità le nuove tecnologie digitali, le quali comunque contribuiscono a rinforzare l’isolamento del soggetto, offrendogli, per “tamponare” al suo bisogno di socialità il conforto di una forma di compagnia e socialità alternativa a quella autentica.

E una volta trovata questa alternativa gradevole, il soggetto si sentirà confortato abbastanza, e difficilmente riuscirà a separarsi da questa nuova alternativa di pseudo vita, la quale avrà prodotto nel soggetto una assuefazione e saturazione tali da creargli dipendenza.

Dunque, anche se il fattore digitale non rappresenta il motivo scatenante, sicuramente ha contribuito ad un più rapido sviluppo e ad una maggiore diffusione del fenomeno in tutto il mondo.

Infatti se nell’era pre-digitale il soggetto che decideva di isolarsi, andava incontro ad una totale rinuncia della vita sociale, poiché non avrebbe avuto nessuna pseudo alternativa veramente soddisfacente, che potesse quasi eguagliare la vera socialitá, oggi invece il soggetto che decide di isolarsi, sa di poter contare su una nuova forma di vivere il sociale (mondo digitale), con la differenza inoltre di non doversi preoccupare di mettere in gioco veramente se stesso, ma in un modo con cui potrà salvaguardarsi da ogni tipo di affronto alla sua persona reale, in quanto potrà “scegliere” chi essere, in base ai modelli sociali già preconfezionati imposti dalla società. Così facendo avrà assicurata  quell’approvazione e quell’amicizia che nella vita reale gli sarebbero altrimenti negate.

Dunque, se il motivo scatenante alla base  del suo isolamento era rappresentato dalla percezione di inadeguatezza di sé, dall’incapacità, dall’inferiorità rispetto al resto degli individui della società, con la possibilità di nascondersi e reinventarsi, il problema, non solo cessa di sussistere, ma si risolve con successo (a detta dell’isolato sociale).

Ovviamente la scelta di essere altro da ciò che autenticamente si è, non sarebbe neanche da definirsi tale, in quanto il soggetto disagiato, come anticipavo, sarà costretto a sottomettersi alla legge dei modelli già prestabiliti dalla società.

 

 

 

1.2 Riflessione sul discorso sociale ed etico

Oggi si parla di mondo digitale, perché la sua complessità, il suo grado di sviluppo, la sua espansione hanno dato vita ad un vero e proprio mondo all’interno del quale poter ri-esistere, autogenerandosi, come più ci si preferisce, alla pari di un Dio, sostituendosi ad un Dio.

Questo esprime con molta evidenza tutto il pensiero contemporaneo di matrice nichilista, impregnato del suo relativismo più estremo; un atteggiamento autodistruttivo che veste i panni di un’ autogenerazione e di una rinascita da “uomo nuovo”, il quale vuole provare l’ebbrezza di essere Dio, anche solo per sentirsene degno.

 

 

In questo caso specifico, relativamente dunque al fenomeno psico-sociale analizzato (quello degli Hikikomori), ma a buon bisogno estendendolo anche ad un maggiore campo (tutti gli schiavi del proprio mondo artefatto) considerando il punto di vista Nietzschiano, l’uomo, andando oltre il bene e il male, andando letteralmente oltre se stesso, egli sovrapporrebbe davvero un altro se al proprio, senza però alcun rimorso o scrupolo di coscienza, la quale è stata già precedentemente uccisa, e ora tace.

Tutto ciò lascia una certa amarezza in bocca, sembra evidente che in questo sistema qualcosa non vada bene, eppure l’evidenza del bene e del male non esistono per Nietzsche e per il pensiero contemporaneo a lui dovuto-dEvoto.

Certamente l’esigenza di Nietzsche, può essere anche ben ammessa se la si colloca nel giusto tempo, in un’ epoca, la sua, in cui vigeva un rigoroso codice morale, fondato sulla mortificazione degli appetiti, e di tutte le inclinazioni incontinenti in generale, ma adesso stento a credere che non raccoglierebbe i pezzi del fallimento della propria filosofia, in quanto l’applicazione radicale e dunque letterale del suo pensiero hanno portato, e porteranno (perché è nel futuro che troverà il culmine della decadenza il pensiero Nietzschiano) alla rivalutazione dell’evidenza, la quale era stata severamente giudicata da Nietzsche.

L’evidenza sarà la stessa che porterà il sistema filosofico Nietzschiano difronte a prove inconfutabili, dove il confine tra il bene e il male sarà più evidente che mai.

Questa evidenza però ci sarà dato di vederla, solo nel caso in cui saranno portati ancora di più all’estremo o addirittura superati i limiti designati dalle leggi naturali, quando forse sarà già ormai troppo tardi per riprometterci di comportarci con coscienza solo per salvarci.

E non è possibile parlare con Nietzsche in termini di misura, medietà, in quanto la sua non etica, in se è estrema, e così come non si può trovare l’estremo in ciò che è medietà (ad esempio nel caso della temperanza), allo stesso modo non si può trovare medietà, in ciò che è estremo.

La mediatá ha come presupposto la presenza di due opposti, perché lei si trova proprio tra loro, se vi è solo un estremo, non vi sarà mai medietà, ecco perché finché sarà radicale la posizione assunta, non potrà mai portare ad una conclusione altra da quella che rispecchia, ovvero non potrà mai manifestarsi in altro modo dalla distribuzione.

In virtù di questa eventuale catastrofe, forse sarebbe meglio augurarci di non arrivare mai a conoscere il risultato del fallimento del pensiero Nietzschiano, ma questo prevederebbe un risveglio prematuro dal nostro assopimento, una presa di coscienza visionaria, in cui sembrerebbe molto difficile sperare.

La proposta Nietzschiana è un po’ la stessa dell’anarchia nella sua forma utopica, che si tradurrebbe in autarchia, e come potrebbe questa contemplare tali eccessi o difetti?

Anche se quanto detto, potrebbe indurre a far pensare che ci fosse una qualche intenzione di confermare positivamente il precedente sistema etico a discapito dell’attuale proposto da Nietzsche, non è da intendersi così, in quanto ritengo che Nietzsche abbia compiuto un atto necessario, che incombeva, che prima o poi non avrebbe tardato a verificarsi, allo stesso modo in cui il contenuto di una pentola a pressione messa a fuoco troppo alto esce fuori spargendosi sulle superfici della cucina, prima o poi se non si regola la fiamma a temperatura moderata. Infatti una morale, che si impone senza riserve e rigidamente, non considerando alcuna inclinazione naturale, mortificando e giudicando troppo severamente certe azioni, una morale che è un imperativo categorico, un monito che vuole suscitare timore e indurre nell’ uomo una totale devozione a se, come un atto completo di fede ceco, senza lasciare alcun margine di riflessione o discussione, una morale che quindi impedisce l’esercizio della natura razionale dell’uomo, ecco una tale morale è da giudicarsi molto severamente.

Nessuna natura, né razionale, né sensibile, deve essere repressa totalmente e violentemente, altrimenti con altrettanta violenta ira si manifesterà presto o tardi. Infatti è tra le file degli educati con i più rigorosi e inflessibili schemi che vengono reclutati i maggiori violenti e ribelli della società.

 

Affermare la sottomissione del principio del piacere a quello di realtà, non sta a esaltare la natura positiva delle capacità intellettive a discapito del “peccaminoso” principio del piacere, diversamente invece sta a significare vivere con coscienza della realtà, una realtà composta da una moltitudine di individui, i quali hanno responsabilità verso di noi, come noi ne abbiamo verso di loro, a partire da questa responsabilità deve concludersi una autoregolazione dei nostri istinti, che altrimenti se pienamente soddisfatti, nuocerebbero all’altro. In un certo senso l’altro dovrebbe diventare il nostro metro di misura, colui a partire dal quale deliberiamo le nostre azioni.

Certo a questo punto bisognerebbe interrogarsi però su cosa sia secondo me il bene dell’altro, insomma si presenta un duplice interrogativo che dà adito alla riflessione sulla concezione del bene e del male secondo me e secondo l’altro. E se io agissi nel bene, ma male in conclusione, certo, sarebbe agire per ignoranza di bene, ma sarebbe comunque agire male in definitiva.

Certo è, che è difficile, forse impossibile andare oltre il bene e il male, per riservarsi un trono regale al di sopra di essi, considerando il fatto che noi stessi, noi esseri umani abbiamo dato nome, per esigenza di natura intellettiva, a questi due concetti opposti che, in quanto concetti si sono fatti intuire, percepire a livello intelligibile, insomma si sono dati a noi. Come la stessa libertà, che non è una realtà empirica, ma non per questo non sussistente, poiché percepita dalla nostra mente e  fornita di prove dalla morale, nella quale si realizza e traduce nella possibilità di deliberare un’azione.

La stessa libertà tanto perseguita da Nietzsche, che lui stesso, invitando l’umanità ad andare oltre i concetti di bene e di male (oltre la dimensione concettuale), annulla, in quanto essa risiede proprio in quella dimensione necessaria.

Certo è però che Nietzsche inviata a superare il concetto di bene e male, ma in generale a superare tutta la realtà concettuale, tutto ciò che riconduce ad una realtà noumenica, tutto ciò che è necessario all’uomo per riempire il vuoto ontologico causato dalla morte di Dio; così assicurando alla libertà il posto nel mondo fenomenico, l’unico reale, a differenza di quello che era stato spacciato come tale per molto tempo (quello noumenico), iniziato con Platone e promosso successivamente dal Cristianesimo.

Dunque la libertà per Nietzsche per poter trovare spazio nell’unica e sola realtà esistente, ha bisogno di una condizione necessaria, ovvero l’assenza del determinismo scientifico, il quale se persistesse sarebbe lui legislatore.

Dunque Nietzsche inviata l’umanità ad uccidere anche il totem rappresentato  dalla scienza e sostituito dall’uomo (positivista) stesso a Dio, per colmare il vuoto ontologico lasciato dal suo omicidio.

“Come però poter affermare che la libertà possa essere in grado di uccidere la tecnica che governa ormai il mondo?”

“E poi non diventerebbe la nostra stessa libertà, portata alla massima esaltazione possibile a diventare lei stessa il nostro idolo? Non finirebbe per scadere in una viziosa ed egocentrica conclusione?

Non saremmo noi stessi a conferirle una posizione nel mondo ideale?”

Se penso infatti alla libertà, portata alle sue massime conseguenze, non posso fare altro che avere davanti a me uno scenario di confusione e devastazione.

“Inoltre possiamo veramente liberarci dall’esigenza di porre al centro della nostra vita un faro, un orizzonte da seguire?”

“Ma soprattutto veramente dovremmo  parlare di liberazione, come se si trattasse di una qualche forma di schiavitù?”

“Siamo sicuri che il nostro bene, risieda nel liberarci, procedendo però così all’infinito, di tutto ciò che si presenta come un Dio?”

E se l’esigenza di avere un Dio, anziché essere la scusa per non sentirci troppo piccoli e insignificanti fosse la logica conseguenza della autocoscienza di essere esseri limitati?

E in quanto esseri limitati siamo spinti dal nostro stesso intelletto, (che il fatto stesso di non averne merito, perché ci è dato, prova l’esistenza di un’alterità suprema a noi), a cercare e a trovare una giustificazione alla nostra esistenza, in quanto ci è evidente che non ci siamo autocreati (sebbene siamo stati generati dai nostri genitori, ma andando a ritroso nel tempo fino a giungere al primo uomo, si riproporrebbe la questione) e, anche se al contrario abbiamo “l’autorità” per toglierci la vita sarebbe comunque un atto contro natura, intesa come procedere, nascere, uno sviluppo che non si frena, un venire continuamente all’esistenza giorno dopo giorno esistendo, crescendo; la distruzione non ha la stessa potenza, la stessa forza suprema posseduta dalla creazione, infatti l’uomo può solo distruggere non creare, al limite può generare (quindi a partire da qualcosa che già gli è dato, da qualcosa che già è, e non dal nulla come nel caso della creazione).

Forse non ci è dato autopercepirsi più di quello che siamo, e forse fare uno sforzo anche solo per sentirci degni di certi attributi, ci farebbe pesare ogni giorno la pretesa di essere Dio e di stare a prenderci in giro di conseguenza.

Inoltre perché mai ammettere l’esistenza di una qualche entità suprema, dovrebbe automaticamente ammettere la nostra infimità?

Infimità della quale ci rendiamo invece conto nel momento in cui vorremmo autoproclamarci Dio, senza averne però i requisiti per farlo.

Ci dovremmo sentire più o meno allo stesso modo in cui si dovrebbe sentire un uccello che volesse imporsi di parlare la nostra lingua.

E affermare che paragonare l’uomo all’animale non è corretto, non va comunque a rappresenta una valida antitesi, in quanto, nonostante l’uomo senza dubbio sia di un gradino sopra rispetto agli altri esseri animali, e lo percepisce bene questo, in altrettanto modo, percepisce a causa della sua non onnipotenza, abbastanza evidente che sia ad un gradino più giù rispetto ad altro, (senza ricorrere a nessun Dio in particolare).

E se l’uomo a differenza degli altri animali può grazie alla tecnica fare ciò che per natura non gli sarebbe stato consentito (volare per esempio), il merito va allora alla scienza, alla tecnica, dunque stando a questo non possiamo prendere in considerazione le parole di Nietzsche, che servendosi dell’uomo folle ci invita, invita gli intellettuali positivisti a non proclamare la scienza a status di nuovo Dio.

Ad ogni modo la scienza di poco, per poca insufficienza non può godere di tale privilegio, in quando la sua esaustività nello spiegare i meccanismi e il funzionamento della natura, tuttavia non risulta sufficiente al fine di giustificarne il perché ontologico.

Ad ogni modo la mia, più che avere la pretesa di essere una proposta risolutiva, poiché non vi è alcuna conclusione che si possa definire tale, per il requisito di chiarezza, in questo elaborato, rappresenta piuttosto un certo tentativo speculativo di individuare i punti focali e di indirizzare una riflessione sulle questioni, anche se abbastanza disordinatamente, esposte.

 

2 Il mondo della tecnica e la sua influenza

2.1 La forza attrattiva del mondo digitale

Tornando al discorso precedente, cioè a prima che la divagazione filosofica prendesse il sopravvento, è importante sottolineare che, avendo una forza molto attrattiva, il mondo del digitale, “facilmente recluta le sue vittime”, in quanto non sono solo i soggetti con gravi disagi psicosociali a diventarne facilmente schiavi, ma anche soggetti più o meno stabili, che tutto sommato conducono una vita equilibrata.

Le nuove tecnologie digitali rappresentano un intrattenimento ormai per molti, infatti è facilmente constatabile che il vecchio libro che prima rappresentava la principale fonte di intrattenimento sia stato da tanti sostituito con il video sul telefonino, che da una possibilità di acquisire informazioni più velocemente e con meno fatica, ma  ciò che però ci sfugge è che questo tipo di acquisizione di informazioni risultata spesso frammentaria e contenutisticamente sbagliata.

Oggi ritirarsi dalla vita sociale, non rappresenta più una totale alienazione, in quanto le nuove tecnologie offrono una alternativa accettabile, anzi spesso preferibile alla autentica vita sociale.

Ad avvicinarsi e a trovare maggiore conforto nel mondo digitale sono proprio i giovani, i quali sentendosi persi in quella fase della loro vita di travaglio interiore, trovano una soluzione facile e veloce nel mondo digitale delle apparenze, dove non esistono pressioni o prestazioni, e dove ogni cosa può esserne un’altra, dove ognuno può essere un altro.

Il progresso tecnologico, l’avanzamento della tecnica sono l’espressione della potenza della ragione umana, la quale prendendo coscienza di sé si dichiara regina e legislatrice dunque di ogni cosa.

 

 

2.2 I maggiori fattori problematici dell’isolamento e gli interventi mirati

I soggetti fortemente dipendenti dai mezzi multimediali, come gli Hikikomori, come abbiamo già detto precedentemente, hanno alle radici del loro disagio un problema psico-sociale importante, e ciò sta a significare che un eventuale intervento nel tentativo disintossicare l’individuo dalla dipendenza non è mirato, in quanto sarebbe necessario e più coerente andare ad intervenire prima sul problema di matrice psicologica.

Infatti una radicale castrazione dell’utilizzo dei mezzi tecnologici rappresenterebbe una violenza ancora maggiore, tenendo conto del fatto che proprio in quello l’individuo aveva trovato una forma di “adattamento sociale”, avendo chat e social network compensato in parte al suo bisogno di socialità.

Ad ogni modo anche se la dipendenza è ciò che preoccupa di più e apparentemente sembrerebbe il problema prioritario, non è ciò che deve allarmarci di più. Infatti i maggiori fattori di preoccupazione dovrebbero essere altri, però più latenti.

Com’è abbiamo già detto il web rende più confortevole il ritiro, di quanto non lo renderebbe se non ci trovassimo in un era digitalmente avanzata, come era appunto per i nostri avi. Il mondo digitale illude il soggetto di aver trovato una soluzione alternativa accettabile, definitiva o comunque a lungo termine. Questa apparente sicurezza, andrebbe a rinforzare positivamente il ritiro del soggetto, andando ad  aumentare il rischio di cronicizzazione.

Inoltre, la grande varietà di intrattenimento offerto dalla rete, diminuisce il tempo della rimuginazione dei pensieri negativi e dunque ha quasi un effetto “lenitivo” per il soggetto, ma al contempo non promuove, anzi al contrario ostacola l’elaborazione e la razionalizzazione del proprio stato, favorendo la negazione del problema, e impedendo una reazione e dunque una eventuale elaborazione risolutiva del problema.

Altri rischi favoriti dalla condizione di grande fragilità psico-emotiva degli isolati sociali, connessi all’utilizzo del web, sono abuso della pornografia, la depressione legata ai social network, fino alla radicalizzazione del pensiero stimolata da gruppi di aggregazione spontanei che promuovono l’autocommiserazione il vittimismo e che possono avere influenze profondamente negative, come per esempio il fenomeno degli “Incel”.

 

Conclusioni

Il cambiamento d’epoca a cui stiamo assistendo ci mette difronte all’evidenza del passaggio da un era analogica ad un’era digitale e tutti gli individui che si trovano a vivere questa mutazione ne subiscono le logiche conseguenze;

però demonizzare la tecnologia e attribuirgli ogni colpa rappresenta una visione troppo semplicistica del problema che si radica in questioni di profondità e spessore maggiore, che in questa sede non andrò ad illustrare.

Ciò che è evidente però in quanto risultato emergente da questa complessa e “contorta” situazione sociale è che ormai sul treno o in altri luoghi pubblici, un tempo spazi di aggregazione sociale, vediamo persone chine sullo smartphone che nemmeno si rivolgono lo sguardo.

 

Probabilmente nei prossimi anni assisteremo alla nascita di numerose comunità riabilitative per la dipendenza da internet, situate nei luoghi più periferici, immerse nella natura e nella più totale assenza di qualsiasi tecnologia digitale. Queste sicuramente rappresenterebbero soluzioni momentanee utili se desideriamo trattare una dipendenza estrema e necessitiamo di uno spazio di transizione, ma l’obiettivo non può essere semplicemente quello di rimuovere completamente il digitale dalla nostra vita, come fosse una sostanza stupefacente, ma piuttosto imparare a padroneggiare tale universo riducendo al minimo i suoi impatti negativi e valorizzando quelli positivi.

All’asino infatti si nega la carota se non adempie ai suoi “doveri”, bisogna trattarlo da animale quale è, non gli si può pretendere di negharsi di mangiare la carota che tanto desidera se c’è l’ha proprio davanti agli occhi, ma il vero uomo realizza se stesso solo se attraverso l’esercizio della sua essenza razionale riesce a rimanere “integro” anche messo alla prova, difronte magari a qualcosa che fortemente lo tenta e potrebbe fare di lui uno schiavo, come la carota fa con l’asino.

 

 

Il ruolo della comunità cristiana

Chiaramente la comunità Cristiana di fronte alla sofferenza di chi si vede costretto al ritiro sociale non deve rimanere indifferente. Infatti il problema dell’altro deve essere sempre anche il proprio problema per il cristiano, deve riguardarlo, in quanto il suo compito è quello di costruire la pace, la solidarietà, l’amicizia e dunque promuovere in conclusione la realizzazione dell’amore su questa terra; questa è la sua missione in quanto discepolo.

Per questo così come in una famiglia, i membri si sostengono l’un l’altro, in altrettanto modo è invitato a fare il buon cristiano nei confronti del proprio fratello acquisto.

In questo caso specifico la solidarietà e l’empatia verso l’ isolato sociale, dovranno consistere nel far acquisire al fratello autocoscienza di sé, della propria bellezza, del proprio valore, insomma il cristiano dovrà insegnargli a guardarsi con gli occhi di Dio, solo così l’isolato sociale, e tanti che come lui soffrono il problema del disadattamento sociale potranno acquisire nuova forza, nuova volontà e nuova vita.

Così facendo si produrrà una rete di solidarietà, per cui l’amore si moltiplicherà per questo effetto e si diffonderà sempre più.

Nessuno di fronte a Dio è inadatto ed inetto, questa è l’unica e autentica dimostrazione d’amore, l’unica vera legge l’unico vero modus vivendi che dovrebbe essere considerato corretto  dall’uomo.

È così difficile vivere nel mondo contemporaneo, in cui i valori dello spirito hanno perso valore a favore di quelli materiali.  Proprio per questo sarebbe meraviglioso poter realizzare un mondo in cui non importa ciò che siamo costretti ad essere da una natura biologica, dunque il nostro aspetto, ma ciò che decidiamo di essere, come scegliamo di comportarci, di condurre la vita.

Infatti non può essere considerato un pregio qualcosa che si ha per natura, al contrario può essere considerato un merito qualcosa che non si ha per natura ma si sceglie, ovvero la propria condotta.

Solo per questa e nient’altro dovremmo essere presi in considerazione, ma non per giudicarci gli uni gli altri, semmai solo per rendere conto a Dio.

L’obiettivo è quello di realizzare l’utopia di costruire il regno di Dio sulla terra, dunque per realizzare tale scopo, c’è bisogno di amore in tutto e la totale esclusione di ogni forma di violenza, di odio insomma.

Coloro che per “provvedono” alla propria esigenza di approvazione sociale, spesonalizzandosi, umiliandosi e cambiando il proprio aspetto, non sanno di non aver trovato una vera soluzione, ma solo un’effimera e provvisoria pseudo soluzione.

Dio invece ci ama senza porre condizioni di alcun tipo, e noi cristiani abbiamo sicuramente il compito di ispirarci a lui, unico e vero idolo.

 

Sitografia:

 

https://www.hikikomoriitalia.it/2019/09/hikikomori-e-internet.html?m=1

 

https://www.corriere.it/tecnologia/19_gennaio_21/chi-sono-hikikomori-ragazzi-isolati-mondo-digitale-70ffb444-1d98-11e9-bb3d-4c552f39c07c.shtml

 

Bibliografia:

 

Crepaldi  M. (2019) Hikikomori, i giovani che non escono di casa.

Kant I.  (1781)   Kritik der reinen Vernunft  (Critica della ragion pura).

Kant I.  (1788)  Kritik der praktischen Vernunft (Critica della ragion pratica).

Nietzsche F.  (1883)  Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen (Così parlò Zarathustra).

1882

Nietzsche F.  (1882)  Die fröhliche Wissenschaft (La gaia scienza)

 

Fiorentini Angelica

 

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